Ora è tempo di sorridere
Ora è tempo di sorridere
Per il concorso letterario "Turno di Notte 2018"
Mai vista una notte così bella. Una luna
da favola, un cielo da poesia. L’aria bruna, dorata addirittura, appena fresca.
Unica nota stonata: il ricordo di quella voce. Sottile, tagliente, feroce. Una
voce cattiva. Appena un sussurro: “Buona fortuna”.
«Zimmermann è uno stronzo».
Cannizzaro schiaccia la sigaretta sotto la
punta delle scarpe consunte, esalando l’ultimo alito dal sapore speziato.
«No, stronzo no. Cattivo, forse».
Liviani sogghigna, troppo stanco o forse
distratto dal ricordo ancora vivido per formulare una risposta decente.
«Sembra facile» dice.
Cannizzaro si scosta dal parapetto e
lancia un ultimo sguardo alla grande faccia bianca contro l’oscurità del nulla.
«Il problema è proprio questo».
Dall’altro lato della strada qualcuno li
chiama a gran voce, destreggiando le braccia nude per il gran caldo in cerchio
sopra la testa. Purtroppo, il suo superiore non ha dubbi nel riconoscerlo.
«Dacci un taglio, Boccadoro: arriviamo».
La casa vecchia ma elegante si apre alla
strada con un portone in legno massiccio dal pesante chiavistello; oltre questo
t’accoglie il salotto, rivestito da una fastidiosa tappezzeria
bianco-ingiallito a contorti ricami verdastri, che creano con il mobilio in
noce un contrasto del tutto anonimo. Lì nel mezzo, però, proprio a ridosso del
pulcioso tappeto persiano, una sagoma spicca.
Amaranto brillante, in campo asettico.
«A che punto siamo, Doc?».
Uno degli uomini intorno alla vittima, il
più alto, si gira di scatto posando il suo viso da labrador su Cannizzaro.
«Quasi finito, capitano».
Gli altri, vestiti con tute azzurrine che
li coprono da capo a piedi, cercano di fotografare ogni centimetro del macabro
quadro e s’avvicinano lentamente per strapparne campioni. Di fianco, si
accumulano le provette.
Liviani si sporge al fianco del capitano,
scannerizzando in un attimo la scena.
«Avete già pulito, vedo».
«Abbiamo tolto il possibile, tenente.» lo
riprende Doc, che si sta togliendo i guanti «Era praticamente impossibile
muoversi, fino a mezz’ora fa. Abbiamo isolato la scena, steso teli intorno al
cadavere per mantenere quante più tracce possibili, ma…»
Il medico legale fa un gesto a Cannizzaro,
indicando la cerniera sulla schiena della tuta. Cannizzaro grugnisce d’assenso
e inizia ad aprirla. Sebbene sia il 7 Luglio e il termometro sia da tempo
scoppiato sotto l’influsso del Sole sfrontato, Doc è vestito di tutto punto:
scarpe lustrate, pantaloni e giacca in tinta (kaki, per l’esattezza) e un
elegante gilet più chiaro da cui pende un orologio da taschino argentato.
«Devo essere sincero, capitano: è
difficile lavorare con una scena così contaminata».
Il resto del team scientifico si alza in
un unico gesto coordinato, come una squadra di nuoto artistico, e ugualmente a
tempo s’allontanano verso il portone, la strada e il furgone col quale sono
arrivati.
«Che puoi dirmi?».
«Poco, rispetto a quel che tu stesso puoi
constatare: il corpo è stato pesantemente mutilato, straziato invero, e
distinguere con precisione la causa del decesso è… Questione di logica, più che
medicina».
Liviani si china e dà un’occhiata,
Cannizzaro s’astiene. Gli basta il ricordo.
Un’ora prima il questore Zimmermann li
aveva chiamati entrambi, capitano e tenente, per “far loro vedere un video”.
«Appena consegnato sul server dei sistemi
di home-security».
«Parla Italiano, Zimmy».
«Una telecamera di sicurezza intelligente:
ci segnala automaticamente episodi sospetti rilevati all’interno delle case
monitorate».
«Immagino arrivino un sacco di
segnalazioni false per uomini di mezza età che si alzano a pisciare alle 3 del
mattino».
«Nella maggior parte dei casi, sì. Non
questa volta, però».
Sullo schermo piatto la scena appariva
comicamente spalmata e in bassissima risoluzione, ovviamente in bianco e nero.
C’era un uomo, di mezza età, in pigiama, in mezzo al salotto. Con un ghigno
ferino, Cannizzaro stava per incalzare una seconda freddura quando un secondo
individuo, più giovane e magrissimo, era comparso sulla scena. E un secondo
dopo, scoppiava il delirio: i due che precipitano al suolo mentre il più grasso
si porta le mani al petto e l’aggressore le alza al cielo; un colpo dopo l’altro,
il coltellaccio che scava una voragine nel petto dell’uomo riverso a terra. La
scena continuava per minuti, finché
quello più alto non si girava di scatto, guardandosi intorno, e spariva
dall’inquadratura.
Ed era stato in quel momento che l’alito
umidiccio di Zimmermann, con la sua voce sottile, bastarda, s’era adagiato sull’orecchio sinistro del capitano e con
malcelata ironia aveva anticipato la condanna: «Buona fortuna».
Perché il caso, ovviamente, appariva facile. Il vecchio dalla
prostata ingrossata era stato riconosciuto all’istante nella persona di Sergio Cavedan,
imprenditore, e lo spaventapasseri dalla passione tagliente in suo figlio Leon.
Parricidio, dunque. Se non fosse che…
«Il ragazzo è completamente fuori di
cervello» aveva riassunto Boccadoro, l’assistente di Cannizzaro, sulla via
verso il centro a sirene spiegate.
Gli occhi del capitano scivolano sul fiore
rosso sbocciato all’improvviso in mezzo al salotto. I suoi tralci vivi si
arrampicano sulla tappezzeria orrenda, sui mobili consumati, sul tappeto
pulcioso. Dura ammetterlo, ma ha un che di irreale e, nel profondo, di bello.
«Le coltellate gli hanno scheggiato la
quasi totalità delle coste e spezzato in due lo sterno sulla quinta linea
intercostale; i polmoni sono ridotti in poltiglia e il cuore è letteralmente a
brandelli. A complicare il quadro, pare che alcuni colpi abbiano leso anche il
fondo dello stomaco e, forse perché sbattuto violentemente a terra o per l’irruenza
successiva dell’aggressore, il contenuto ha invaso praticamente ogni struttura
toracica».
«Quindi?».
«Non ci si capisce un cazzo» interviene
Liviani, chino sul corpo.
«Mi duole ammetterlo, ma il suo collega ha
ragione.» continua Doc, rivolto a Cannizzaro «Per ovvietà, la causa del decesso
è da ricercarsi nel trauma multiplo e, nello specifico, nella lacerazione del
sacco pleurico e della parete cardiaca».
«In parole semplici: o è morto soffocato o
gli è scoppiato il cuore, giusto?».
Doc annuisce. Il capitano desidera
ardentemente un’altra sigaretta.
«In ogni caso» continua il medico «lo
hanno ucciso le coltellate. Almeno, così pare. Per il resto, ho notato una
generale contrazione della muscolatura scheletrica in accordo con il tentativo
di difendersi. A sorprendermi, è stato l’esame degli occhi: le pupille erano
dilatate, il che è insolito. Oh, ed era caldo; molto caldo».
Liviani si alza, massaggiandosi il mento
imberbe. Con quella camicia rosa spento e i pantaloni bianchi, sembra un confetto
gigante. Squadrandogli il culo gigante, Cannizzaro non ha dubbi: è ingrassato
ancora. Dieta estiva? Il prossimo anno, anche stavolta.
«In ogni caso,» riprende, scacciando i
pensieri inutili «del ragazzo che puoi dirmi?».
Doc sospira, girando gli occhi alla porta
opposta all’ingresso, seminascosta dall’oscurità strana e assoluta che generano
le lampade bianche a basso consumo.
«Difficile esprimere un giudizio. Con
questi pazienti, non si capisce mai cosa possa girar loro per la testa. Non
rispondono in modo coerente, spesso sono criptici o… Insomma, è complicato».
Complicato.
Cannizzaro ha sonno: sono le 3 del mattino
e il turno di notte si è già rivelato il peggiore degli ultimi tre mesi.
Liviani, confetto maledetto, non dà segno di cedimento. Boccadoro, contro una
parete, sta palesemente ronfando.
«Voglio vederlo».
Doc alza un sopracciglio. Uno solo, folto
e nero, sul suo sguardo di ghiaccio.
«Se vuoi, accomodati. Però, sappilo: sarà
inutile».
Detto questo, il medico fa scattare i
moschettoni della cassetta degli “attrezzi” e imbocca il sospiro del vento che
spira dalla strada.
Liviani si avvicina al collega, il
cellulare in mano. Sta riguardando il filmato della telecamera di sicurezza.
«Credevo sarebbe rimasto per
l’interrogatorio».
«Non lo pagano abbastanza. E poi, questo è
il nostro lavoro, non il suo»
conclude Cannizzaro, lapidario.
Il collega stira le labbra, scettico. In
realtà, neanche il capitano è troppo convinto.
Non crede di poter ribaltare l’ovvio, non
crede di sopravvivere un’altra ora sveglio. Ma soprattutto, non crede riuscire
a tirar fuori qualcosa da una mente storta.
«Boccadoro: riassunto».
Il giovane boccheggia come un pesce
agonizzante. I suoi occhi schizzano come dardi dal superiore, seduto al
tavolino del cucinino troppo piccolo per tutta quella gente, e l’altro: Leon Cavedan, trentaquattro anni,
paziente psichiatrico. Un ex compagno.
«Questa notte, alle tre e undici minuti
del mattino, il sospetto aggredisce la vittima con un coltello e lo ferisce al
petto un numero imprecisato di volte; la scientifica stima una cinquantina di
pugnalate, inferte con forza e intenzione, al petto, precisamente intorno al…».
Il ragazzo seduto di fronte a Cannizzaro
muove convulsamente la gamba destra, scuote la testa, si guarda intorno. Ad
intervalli regolari prova a sollevare le mani, ammanettate al tavolo: allora
ride, borbotta qualcosa di incomprensibile, e il ciclo ricomincia. In quel
preciso istante ha provato ad alzarsi, ma l’impedimento dei polsi l’ha fatto
ricadere a peso morto sul tavolo. Ancora quella risata, tenebra pura, scandisce
il silenzio del cucinino sovraffollato.
Intorno a loro, infatti, sono in dieci:
Boccadoro, Liviani, sei Carabinieri, due soldati del terzo reggimento
Aviotrasportato.
Perché questi ultimi due, chiedete?
Abbiate pazienza.
«Boccadoro, riprendi».
Il giovane deglutisce a vuoto.
«Come dicevo: lo ha pugnalato
ripetutamente al petto, provocandone la morte».
Un sussulto, nella stanza. Quasi
invisibile, una figura si scuote di fianco all’alto e magrissimo
spaventapasseri coperto di sangue.
«Signora, è sicura di voler restare?»
chiede Liviani, dall’ombra.
«Devo rimanere accanto a mio figlio. È mio
dovere».
Gigliola Montecchi, ora “vedova Cavedan”,
trema come una foglia al fianco del mostro. Nonostante questo, gli stringe forte
il braccio e lui, a tratti, le sorride, balbetta dolcezza, riprende a fiorire
un mondo solo suo.
«Ti chiami “Leon”, giusto?».
«Leon è il mio nome, la gente mi chiama
Leon, così non ci si confonde, è questione di principi, regola dei dottori, i
dottori che mi curano, perché la mia testa non funziona tanto bene. Le macchine
funzionano, se le aggiusti, allora io le aggiusto. Le aggiustavo, ora no, ora
non vado, ora sto. Ma ho sete e questa roba appiccica, devo farmi una doccia,
ora vado».
Il ragazzo prova ad alzarsi di nuovo.
Questa volta intervengono i due soldati, che lo trattengono prima che strattoni
il tavolo e lo fanno nuovamente accomodare. Lui risponde loro malamente e
volano un paio di bestemmie, poi torna il silenzio.
Cannizzaro porta la mano al taschino della
camicia e anche Leon, per quanto impedito dalle manette, avvicina le dita al
petto. Il capitano lo osserva, prende nota, e schiude le labbra.
«Posso fumare, signora?».
La vedova annuisce, mentre Liviani apre
una finestra.
La nebbiolina grigia si alza placida,
mentre lo sguardo del capitano sonda l’espressione affranta della donna. Ha
capelli corti e d’un biondo sporco (probabilmente tinti), fronte ampia, occhi
piccoli e scuri, zigomi bassi e naso affilato, labbra esili. La testa si stacca
su un collo tirato e magro, che s’innesta su un corpo esile quanto un fuscello,
in quella vestaglia celeste che troppo ricorda le divise della Scientifica.
Alle pareti del cucinino sono appese le
foto di famiglia: volti sorridenti, sguardi raggianti. Il figlio nella sua
uniforme da parata, le medaglie affisse al petto. Al suo fianco, sempre, la
madre: una bella donna dai lunghi capelli corvini, gli occhi allungati, le
labbra sanguigne.
Guarda i ricordi, Cannizzaro, e l’ombra
della storia sfiorita lì, di fronte a lui. Non può che provare un senso di
vuoto sgomento, che qualcun altro definirebbe “disgusto”. O “accidia”.
«È sempre stato così?».
«No, ovviamente.» risponde la madre,
sollevando un sorriso triste al suo bambino «Un incidente, tre anni fa. Buffo,
non trova? Cinque anni in missione e nemmeno un graffio, non un livido. E poi,
è sulla via di casa che me lo hanno rovinato».
«Rovinato, come le macchine che non
funzionano, le macchine che hanno fatto degli incidenti, che vanno riparate,
allora tolgo il pezzo che non funziona, se lo tolgo funziona meglio, poi
riparte» borbotta Leon, mentre di nuovo prova ad alzarsi e viene trattenuto. Guarda
Cannizzaro e porta le dita alla bocca come fanno i bambini imitando gli adulti,
soffiando e sbuffando, soffiando e sbuffando…
«Ho letto la sua scheda. Lesione della
corteccia orbito…».
«Frontale».
«Sì, esatto.» riprende Cannizzaro,
fulminando Boccadoro con lo sguardo «Gli è stata diagnosticata una sindrome
piuttosto rara che lo porta ad agire impulsivamente, come mosso da un bisogno
interno nei confronti dell’ambiente che lo circonda. Vuole spiegarmelo?».
«In pratica» risponde la madre «il mio
Leon sente di dover svolgere delle azioni perché esse sono possibili. Se vede un accendino, lo fa scattare; se vede una rampa
di scale, le sale. Non c’è intenzione, tuttavia, nel suo agire: è come una
necessità, un bisogno. Nel mio piccolo» aggiunge, sorridendo «mi piace pensare
che desideri dare un senso ad ogni cosa, realizzare per ogni oggetto la sua
funzione affinché si senta realizzato. Lo so, è idiota, ma… Mi aiuta».
«Io aiuto spesso la mamma, le prendo le
cose, l’aiuto in cucina, taglio e affetto e butto la pasta. Anche adesso ho
fame».
Mentre le manette stridono e il tavolo
balla, Cannizzaro alza gli occhi sulla donna.
«L’aiuta in cucina?».
«Sì, in compiti semplici. Una parte della
sua patologia consiste nell’imitare ripetutamente atteggiamenti visti in altri.
Quindi, se mi vede affettare le verdure potrebbe passare il resto del
pomeriggio a produrre rondelle di carote» risponde lei, ridendo.
L’aria della sera entra dalla finestra a
tratti, come un respiro affannoso, portando il profumo della notte: l’umidità
del fiume, la fragranza dei forni abusivi che dispensano dolci ai festaioli, la
piacevolezza dell’ozono che precipita dalle stelle sulle città.
«Quindi, crede che sia stata un’imitazione
anche la tragedia di questa notte?».
Il sorriso sfiorisce in un istante. Torna
l’ombra, su ogni ruga, e la tensione di quel terribile tribunale di sguardi
silenziosi intorno a lei.
«Non lo so, agente» sussurra lei, gli
occhi a terra. La mano, nota Cannizzaro, stringe convulsamente il braccio del
figlio.
«Sono capitano, in realtà. Comunque…».
Si alza, guardandosi intorno. I cassetti e
gli armadietti sono tutti spalancati, uno in particolare attira l’attenzione:
imbrattato di sangue, si apre sull’acquaio. Anche gli altri piatti sono madidi,
come il lavello e il panno posato sul rubinetto. Leon, nella sua innocenza,
deve aver lavato ed asciugato il coltello, malamente, prima di riporto insieme
alle altre stoviglie. In qualche modo, fa quasi tenerezza.
«E suo marito, signora? Di lui che mi
dice?».
«Sergio soffriva d’attacchi epilettici, da
quando aveva vent’anni. L’abbiamo sempre tenuto sotto controllo, fino a qualche
mese fa. Stress, dicono i dottori: è invecchiato prima del dovuto, e insieme a
lui il suo cervello. Gli hanno dovuto cambiare i farmaci, aveva prenotato
visite, consulti… Oh, povero marito mio».
La vedova si piega sul tavolo, soffocando
le lacrime. Leon la guarda da diverse angolazioni, ruotando la schiena quanto
più gli è concesso.
«Non deve piangere la mamma, non ora non
più, quel che era da fare è fatto e adesso siamo felici, stiamo tutti bene, ora
è tempo di sorridere tutti insieme! Il babbo è morto!».
Quella risata, sguaiata e smodata, raggela
il sangue e ribalta lo stomaco. Boccadoro non ce la fa e si porta una mano alla
bocca, Cannizzaro fa allora segno a Liviani di accompagnarlo al bagno. I due
escono, mentre il capitano riprende posto di fronte al mostro e alla vittima.
Invero, ha già tutto quel che gli serve.
Quel che manca, è una conferma.
«Cosa gli succederà, adesso?» chiede la
donna.
Tombola.
«Signora, suo figlio dovrà rispondere
delle sue azioni. Capace o meno di intendere e volere, rappresenta un evidente pericolo
per la società civile. In quanto tale, dovrà essere isolato e, per quanto
possibile, rieducato».
Le labbra della donna s’increspano un
istante, prima che i suoi occhi si schiudano e suo volto, in un istante, sia
sconvolto da una maschera di dolore.
Uscendo dal cucinino, Cannizzaro cerca di
ignorare l’ennesimo schianto del tavolo, le grida degli uomini che cercano di
trattenere l’ex sergente impazzito e il chiasso della strada ora intasata di
ubriachi al volante. Nel salotto, viene raggiunto da Liviani e i due si
scambiano uno sguardo.
«Trovate?».
Il tenente gli porge il flaconcino già
chiuso nella busta sterile, senza etichette. Cosa farne, ora, è una sua
decisione.
Escono entrambi, nella notte. Una notte
così bella, come Cannizzaro non ne ricorda. Non adesso, almeno, che ha bisogno
di bellezza, di felicità. Camminano sino al ponte, lì vicino, sospeso sul
fiume: dopo la pioggia abbondante dei giorni scorsi è di nuovo vivo, per quanto
placido, e tinto d’un grigio non poi così malsano.
Quando Boccadoro si sporge dal portone, stringendosi
la pancia con una mano e appoggiandosi ai cardini con l’altra, si chiede che
diavolo ci faccia, il capitano, lì. Si avvia anche lui sulla strada, mentre
alle sue spalle trascinano via Leon: sono in cinque a trattenerlo, perché
nonostante l’estrema magrezza ha l’irruenza dei suoi trent’anni e la forza
dell’incomprensione; continua a strattonarli, si guarda intorno preso dal
panico, scoppia a ridere, a piangere, manda a fare in culo il mondo intero e
chiama a gran voce la madre. Un grido che si perde nel sorriso triste dalla
Luna.
«Capitano…».
«Vieni qui, Boccadoro».
Il giovane s’avvicina barcollando da un
piede all’altro. I capelli corti sconvolti e stopposi, la camicia dalle maniche
arricciate contro le spalle e regolarmente fuori dai pantaloni, la cui cinta
pende debolmente di lato: sembra un disperato, o Cannizzaro fino a qualche anno
prima (quando ancora riusciva a rimorchiare, e i “mezzi giusti” funzionavano).
«Cerca di resistere, ragazzo: te ne
toccheranno altre, di notti come questa».
«Proprio come questa, signore, spero proprio di no».
«Cerca di concentrarti: fai un bel
respiro, e dicci che hai notato.» lo riprende Liviani, appoggiato coi gomiti
sul parapetto «Vai con ordine: prima di tutto, c’era qualcosa di strano nel
video della sicurezza?».
«A parte il pazzo che ha dilaniato il
poveretto? Non proprio, si…»
Cannizzaro raddrizza la schiena in uno
scatto, il dito inquisitore puntato alla Luna.
«Già sbagli, Boccadoro! Ti sei fatto
distrarre dall’ovvio e non hai prestato attenzione ai dettagli. Notato nulla,
nella vittima prima che divenisse
tale?».
Il giovane ripensa alla breve scena
dell’assalto. Rivede l’anziano di fianco alla finestra, il bicchiere mezzo
pieno in mano, lo sguardo preoccupato e…
«Oh».
«Esattamente!» conferma Liviani «La vittima
stava già male prima che il figlio
gli saltasse al collo col coltello. Movimenti brevi ma bruschi, in prossimità
di una presa d’aria, con un bicchiere che non riusciva a vuotare».
«Per caso hai controllato anche il
cadavere? Cosa aveva di strano?» continua Cannizzaro, fissando le iridi verdi
in quelle del giovane.
«Il corpo era caldo, la pelle lucida, le
pupille dilatate».
«Bravo: sono questi i segni principali. Tu
sei stato anche con l’Antidroga per un periodo, giusto?».
«Sissignore».
«Quindi saprai ricondurre questi sintomi
ad un veleno particolare».
Boccadoro spalanca gli occhi e il chiarore
delle stelle si riflette nei suoi occhi lucidi di sonno. Cannizzaro, mosso a
compassione, sorride e gli batte una mano sulla spalla.
«Pensa sempre alla vittima: cosa ha detto
la vedova, durante l’interrogatorio? Di cosa soffriva?».
«Attacchi epilettici».
«E sai qual è uno dei farmaci che si
possono somministrare come misura estrema nel caso di ingravescenza dei
sintomi?».
Boccadoro scuote la testa, ma ribatte: «Mi
è venuto in mente ora. Sarebbe stato più semplice se m’avesse detto di pensare
alle sue pupille». Poi, si gira verso Liviani e sentenzia: «Atropina. Giusto?».
Il tenente conferma e indica il capitano.
Il giovane sposta lo sguardo e, sospeso ad un soffio dal naso, vede ondeggiare
un sacchetto trasparente. Al suo interno, un flaconcino contenente piccole
siringhe ripiene d’un liquido trasparente.
«Fra tutti i veleni liberamente
disponibili, è quello più infido: agisce velocemente ed è difficile
individuarne le tracce. Certo, nel nostro caso sarebbe stato più facile se Leon
non avesse fatto un macello».
Cannizzaro lascia cadere il flacone fra le
mani di Boccadoro, che se lo rigira fra le dita e cerca di mettere insieme i
pensieri.
«Ma quindi, Leon…».
«Non è stato lui, ragazzo».
Il giovane, per quanto possibile sotto
quella Luna pallida, sbianca. Guarda Cannizzaro, come a chiedere: “Chi,
dunque?”. La risposta, però, è ovvia. I sospetti, in fondo, non sono molti.
«La vedova?».
«Esattamente» ammette Liviani, riverso
oltre il parapetto.
«Perché?».
Risponde il capitano: «Se avessi fatto
attenzione ai dettagli, Boccadoro,
l’avresti capito. Prima di tutto, hai visto altre fotografie in casa oltre a
quelle in cucina che ritraggono Leon prima dell’incidente? No».
Continua il tenente: «Secondo, le mani
della vedova. Sempre strette intorno al figlio. Portava la fede? Te lo dico io,
perché di sicuro non l’avrai notato: no. Strano, visto che il marito era morto
da poco più di un’ora».
«Ma l’indizio più importante» conclude Cannizzaro
«sono state le parole di Leon. Ti ricordi che ha detto, fra una risata e
l’altra?».
Il vento della sera porta l’odore del
fiume. Nel salmastro che l’avvolge e gli sconvolge le vesti, Boccadoro sente
echeggiare una voce fra i ricordi.
“Quel che era da fare è fatto e adesso
siamo felici, stiamo tutti bene, ora è tempo di sorridere tutti insieme”.
E piano, il giovane comincia a capire.
«La vedova gli ha dato una dose eccessiva
di farmaco, non abbastanza però per indurre un blocco respiratorio. Leon deve
aver visto che il padre stava male e non riusciva a respirare, per cui… Oh mio
Dio…».
«Gli ha aperto lo sterno per farlo
respirare. Già. In fondo, agiva istintivamente e per imitazione. Nella sua
testa dev’essere stata la conclusione più logica: se dal canale presente non
passa l’aria, è meglio farne un altro».
Liviani sospira, Boccadoro non vuole
crederci. Le loro sono solo deduzioni, sostenute da indizi, rafforzate da
fatti.
«Magari Cavedan si dava il farmaco da solo
e ha esagerato perché si era scordato di averlo già preso, così…».
«Glielo dava la moglie. Non l’hai sentita?
Diceva : “L’abbiamo tenuta sotto controllo”. Al plurale».
«Lei si prendeva cura di entrambi.»
continua Cannizzaro, mentre dal taschino estrae l’ennesima sigaretta «Forse è
per questo che non ce la faceva più. Non credo volesse incolpare il figlio,
comunque: dev’essere stata una fortuita combinazione d’eventi a guidare le
scelte di quest’ultima ora».
Boccadoro si abbandona a propria volta
contro il parapetto, tirandosi indietro i capelli dalla fronte madida. Col
respiro spezzato, riesce a concludere: «Se avessero messo dentro lei, per il
figlio sarebbe stata la fine. Ma così, con lui chiuso in una struttura dove
viene costantemente monitorato e la possibilità di andare a trovarlo quando se
la sente…».
«Una prospettiva ben più rosea, giusto?».
Cala il silenzio.
Dalla casa si levano alla notte le ultime
grida, prima che le volanti partano e la strada sia lasciata deserta. Solo la
berlina di Cannizzaro, parcheggiata abusivamente a ridosso di un palo della
luce, disturba il paesaggio altrimenti simmetrico della vecchia città. Dalla
soglia illuminata la vedova rivolge loro uno sguardo silenzioso, prima di
svanire dietro il buio del portone.
«Il problema, ora,» riprende Liviani «è
definire la colpa. Chi credi sia il
vero assassino, Boccadoro? La vedova che non è riuscita ad avvelenare il
marito, o il figlio che per salvarlo gli ha squarciato il petto?».
«Cosa è meglio fare? Lasciare che un pazzo
mezzo innocente venga rinchiuso dove possono controllarlo, o rovinare la vita
di entrambi e non lasciare neanche un vincitore?» incalza Cannizzaro,
stringendo così forte la sigaretta fra le dita da spezzarla.
Il giovane deglutisce e stringe i denti,
abbassando lo sguardo. I due superiori, scossi e stanchi, lasciando che la
frustrazione evapori nel profumo delle alghe, nel fragore dei clacson in
lontananza, nelle luci artificiali che danzano insieme alle stelle.
«Dovremmo lasciare almeno un po’ di
felicità per chi forse se la merita, o perseguire la giustizia? Non ti chiedo
di rispondere secondo codice, ma secondo coscienza. In ogni caso, Leon sarà
rinchiuso perché, indiscutibilmente, è stato il suo gesto a uccidere il padre;
nonostante ciò, a muovere gli eventi è stato l’intento della madre, scossa
dalla stanchezza, dall’accidia, dal mondo stesso. Per quanto ne sappiamo, forse
dietro quello sguardo inespressivo nascondeva il rimorso per non essere
riuscita a curare né il marito né il figlio, o forse non sopportava di vederli
entrambi decadere così velocemente e prima di lei. Magari voleva disconoscerli
entrambi e c’è riuscita solo col marito, perché l’istinto di una madre è troppo
forte perché la coscienza lo sopprima. La nostra conoscenza, Boccadoro, è
parziale e legata alla logica, alla simulazione, al verosimile. Possiamo solo immaginare le motivazioni, ma abbiamo
potere sulle conseguenze. Dunque, ancora una volta te lo chiedo».
In lontananza, dove il fiume scompare al
limitare delle colline, una falce di luce s’incendia all’improvviso. La
meraviglia della notte lascia posto a un nuovo orizzonte, sempre avvolto da
quell’aria dorata che culla i sogni dell’estate.
«Cosa dovremmo preferire: la giustizia o
la felicià?».
Boccadoro ha lo sguardo basso. Liviani lo
squadra, cercando di capirne l’espressione o intuire un gesto. Cannizzaro gli
lascia tempo: crescere non è questione di secondi, ma di istanti, vissuti al di
fuori e dentro di noi.
Così, quando il Sole scivola finalmente
sul suo viso, i loro occhi si incontrano.
E insieme, sorridono.
Giacomo Soraperra, Riva del Garda, 2018
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