L'ultima gita in campagna di Hermann

L’ultima gita in campagna di Hermann




La Zecca arrancava in un concerto di bulloni arrugginiti.
“Ti avevo detto di revisionare il motore prima dell’ultimo salto!” ringhiò Mr Jakob, agguantato alla cloche.
“Già, me l’ha detto. E io l’ho ignorato.”
Con uno scoppio di fumo nero il mezzo precipitò nella fitta nebbia sempre più veloce, sempre più incontrollabile.
“Preparati! Non sono sicuro che gli appoggi siano…”
Gli appoggi, infatti, non erano operativi.
La Zecca si schiantò violentemente su un cumulo di fango marcio, che schizzò per aria insieme a buona parte della carlinga e al povero Hermann incredulo.
Perché a quanto pare, neanche le cinture erano poi tanto a norma.
Quando il giovane rinvenne, si trovava sulla schiena di Mr Jakob.
“Bentornato fra noi, boy.”
“Dove siamo?”
La nebbia copriva ogni cosa: non ci si vedeva ad un palmo dal naso e al giovane sembrava si fluttuare nel vuoto, non fosse stato per la dolorosa presa del capo stretta intorno al suo cinto pelvico.
“Da qualche parte nell’Assex, immagino. Sto seguendo la strada.”
“Quale strada?”
“Quella che mi indica il mio cuore.”
Vagando completamente a caso nella bruma, per miracolo o pietà del destino, avvistarono un imbrunire pallido in lontananza: una luce artificiale. Hermann smontò dalla cavalcatura con un debole lamento e un “grazie”, e insieme arrancarono nel fango verso la salvezza.
L’enorme cartello, quando fu visibile, si dimostrò tuttavia assai poco confortante.
“L’agnello sgozzato.”
“Non penso proprio.”
Sull’insegna, delineati a linee rosse e gialle di neon singhiozzante, c’erano il viso truculento di un lupo e la povera carcassa di un ovino martoriato, dal viso ironicamente beffardo.
“Prego?”
“Quello non è un agnello. Sembra più un piccolo di capra. Od alpaca tutt’al più.”
“Non credo sia questo il punto, Hermann.”
“Oh sì invece!” ribadì il ragazzo “Non ci si può fidare di gente che confonde le razze belanti.”
Dietro il cartello si alzava uno stabile – invero una catapecchia – di legno apparentemente marcescente, forse per via dell’ampio mantello di muschio che lo ricopriva, con numerose finestre tuttavia sprangate e un portoncino dai vetri opachi.
Mr Jakob abbozzò un inchino esagerato, sfiorando il letamaio in cui affondava sino alle ginocchia.
“Dopo di lei, messere. Se l’è guadagnato.”
Hermann produsse un suono indescrivibile, si tirò su la cinta e fece strada verso il locale.
La porta scivolò senza un sussurro, non fosse per la campanella che trillò benevola. All’istante, un olezzo preciso e pungente, che il ragazzo conosceva bene, lo investì. Che diamine è ‘sta roba? pensò, mentre insieme al compagno entravano.
La stanza era ampia, la luce fioca, e decine di tavoli ospitavano ancor più avventori, tutti simili nella loro disomogenea bruttezza: denti storti, barbe incolte, capelloni lunghi e giusto un poco untuosi sotti i cappellacci rattoppati. E su ogni centrotavola troneggiava gloriosa una sputacchiera di rame foggiata a testa di lupo dalle zanne lucenti.
“Una locanda. Bel colpo, old sport! Siamo salvi.”
Hermann ruotava lo sguardo con ticchettio meccanico scannerizzando ogni faccia, ogni singolo granello di polvere, contando persino le ragnatele sul soffitto, conscio che in fondo qualcosa non quadrava.
Ma mentre era preda di tale delirio mistico, Mr Jakob aveva raggiunto il bancone.
“Prego, buon uomo:” declamò al barista “due posti per la notte, e magari qualcosa di gustoso per poter desinare!”
“Non c’è niente per voi due, stanotte, qui.”
Calò un silenzio teso, e ad Hermann parve che d’un tratto si fosse fatto freddo nella stanza.
“La prego, buon uomo: due posti per la notte e un poco di sbobba rancida, se l’aggrada.”
L’uomo, alto magro e pelato – come da copione, insomma – alzò per un istante gli occhi dal boccale che stava lucidando e scandendo con più attenzione le parole ripeté: “Non c’è niente per voi due, stanotte, qui.”
Hermann si affrettò a raggiungere il suo capo, sfrecciando con lo sguardo a destra e mancina come fosse un fenicottero epilettico, e con le dita cercò furiosamente le cuciture della tasca interna della giacca.
“Ah ah, che burlone!” continuò Mr Jakob, che non accennava minimamente a darsi per vinto “Vede, ci si è rotta la Ze… La macchina e quindi siamo bloccati in questo buco merdoso. Ecco, se lei potesse indicarci un angolino meno sudicio dove adagiare il culo in attesa che passi la nebbia, non sarei più così tanto triste. Me lo puoi fare un piacere, zuccherino?”
Hermann sentì la propria anima congelare e un tamburellare d’abisso occludergli le arterie temporali. Girandosi di scatto, gli parve di notare una figura in piedi in un angolo buio subito prima che tre compagni l’afferrassero e… Oh Cristo!
“Glielo ripeto per l’ultima volta:” riprese il barista, visibilmente stizzito, abbandonando il bicchiere e il cencio sul bancone: “Non c’è niente per voi due, stanotte, qui. Se ve ne andate subito, forse potreste evitare problemi”.
Evitare cosa?!
Hermann afferrò Mr Jakob e, bofonchiando una scusa improponibile, lo trascinò verso la porta ed oltre ad essa scomparve nel canto della notte.
Nel locale calò un silenzio di tomba.
Hermann continuò a correre per ore, sicuro che qualcosa si annidasse nell’oscurità e gridando come una poiana ad ogni suono - a suo avviso - minaccioso che grugniva la torbiera. Quando il Sole stese il suo calore sul mondo e la nebbia si diradò, finalmente trasse un respiro di sollievo, scaricò il corpo esanime di Mr Jakob e svenne alla vista d’una vera, graziosissima città.
Ben più lontano nella brughiera, il barista uscì dal locale sputacchiando bestemmie fra le pieghe del vecchio soprabito. Mentre caricava le ultime valige, una folla di bifolchi lo osservava in solenne silenzio.
“Non bastava dirgli che ti hanno chiuso il locale per i sorci nella cucina?” chiese uno di loro, che stringeva fra le mani un cappellaccio unto.
“E far brutta figura coi forestieri? Giammai!” rispose il barista.
“Era la nostra ultima bevuta insieme: potevano unirsi anche loro” controbatté un mingherlino in terza fila, quello che prima gli altri avevano portato via in preda ad un vero attacco epilettico.
“E spargere la voce che la mia birra fa cacare? Giammai!”
I suoi amici lo salutarono. La macchina scoppiettò tisica lungo il viale sterrato e il camion dei traslochi la seguì.
Farsi pessima pubblicità la notte prima del mio trasferimento nel nuovo locale di città? Giammai! pensò il barista, sorridendo.




Giacomo Soraperra, 30/03/2019

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